ANNO 25 n° 79
La panzanella dei giorni felici
<<<<<< di Massimiliano Capo <<<<<<
21/07/2014 - 12:24

Mi ricordo che c’erano tre scalini un po’ rovinati e poi una porta, tinta di un marrone ormai così bruciato dal sole che assomigliava all’arancio del tramonto all’orizzonte. E poi c’era la chiave sempre infilata nella serratura che per entrare bastava girarla e al più, accompagnare il gesto con una voce, Nanna ci sei, o un leggero bussare.

E la Nanna c’era sempre, perché la spesa la faceva col fresco e usciva prestissimo e scendeva in paese a piedi per tornare a casa col pane fresco e odoroso e poco altro.

Mi ricordo che d’estate Gigi si alzava presto, così presto che fuori era ancora buio, e nella casa a forma di elle con le stanze una nell’altra, io lo sentivo prima svegliarsi e poi dare il buongiorno alla Nanna e poi passare nella mia stanza che era anche la sala da pranzo cercando di far piano ma in quella casa tutto tremava col solo camminare e allora mi svegliavo ma facevo finta di no e poi lo sentivo lavarsi sotto l’acqua fredda del lavandino e vestirsi per andare in campagna.

La Nanna nella cucina preparava la colazione fatta di pane raffermo inzuppato nel latte munto la sera prima e poi bollito a lungo. Il latte arrivava al tramonto e lo portavano Antonio e la Cencina che abitava proprio lì di fianco, dietro un portone verde scuro, anch’esso bruciato dal sole, che nascondeva due stanze e un piccolo bagno. Lo portavano con una macchina sempre sporca di terra e fango e dentro quei fusti di acciaio che bruciavano al sole epieni di quell’odore intenso, oggi scomparso, che si sentiva per tutta la via e che sapeva di erba tagliata e sole e mucche al pascolo.

 

Mi ricordo che dopo la colazione, la Nanna preparava il tascapane con la merenda perché Gigi, dopo qualche chilometro fatto in bicicletta per strade sterrate, avrebbe cominciato a lavorare il suo piccolo pezzo di terra o sarebbe andato a fare una giornata per qualcuno come ogni bracciante.

La merenda di metà mattina era fatta ancora di pane e qualche salume fatto in casa durante l’inverno, quando si consumava il rito dell’uccisione del maiale e della trasformazione di ogni sua parte in qualcosa di ghiotto e prelibatissimo. Dalle orecchie al naso per arrivare ai fianchi, del sacro animale non si buttava nulla.

E insieme a pane e salumi, in quella sporta c’era l’immancabile fiasco di vino, anch’esso figlio dell’autunno e che a seconda della riuscita dava, come un presagio, il colore all’anno che stava per cominciare. Perché per la Nanna e Gigi, e per tutti gli altri lungo quella via allora affollata, il tempo era scandito dal ricorrere delle colture;era quello dei campi e dei frutti, figli della schiena bruciata al sole in estate e delle mani rovinate dall’umidità e dal freddo il resto dell’anno.

Mi ricordo che alla mezza, il mezzogiorno dei poveri, Gigi tornava spingendo la sua bicicletta su per la salita che nascondeva la casa allo sguardo e poi rapido per la breve discesa che lo accompagnava alla porta di casa. La Bianchi su cui pedalava era di ferro pesante e ruote grandi e scivolava veloce. Sul davanti, nel cestino, portava quanto serviva per il pranzo e la Nanna era lì pronta a raccogliere tutto e mettere in piedi il desco che di lì a poco avrebbe servito in tavola, dopo che Gigi si era lavato sotto lo scroscio dell’acqua fredda e vestito per mangiare.

Perché a tavola, mi ricordo, che tutti si indossava sempre la camicia pulita e i pantaloni per uscire anche se poi non si usciva e si andava a riposare con le finestre socchiuse e le persiane accostate a fare ombra. E la stanza, in quei caldi pomeriggi d’estate, si colorava del cinguettio degli uccelli, dei rumori del lago, degli strilli dei ragazzi che si tuffavano dagli scogli, del potpot pot delle poche barche a motore e del frinire delle cicale, quello sì, senza sosta.

Mi ricordo che poi, saran state due ore, si tornava in strada ed eraora di merenda per noi piccoli.

Il sole era forte e caldo e la strada accecava coi riflessi del sole alto e noi si stava su una panchina all’ombra strminzita del muro di cinta del giardino della villa e la Nanna ci chiedeva cosa volessimo e la risposta era sempre la stessa: panzanella.

‘’Il termine panzanella (devo la notizia a quella miniera che è ‘’Tuscia a tavola’’ di Italo Arieti) deriva da pane in zanella, dove zanella sta a significare un recipiente concavo a forma di piccola culla o piccolo paniere o, addirittura un laterizio facente parte di un canale, aperto a metà dove scorre l’acqua. Probabilmente proprio da un simile recipiente ha preso il nome la panzanella che veniva preparata dai contadini negli orti come pasto frugale e come merenda estiva per i ragazzi.’’

Questa è la ricetta della Nanna:

prendere del pane raffermo e metterlo in un piatto capiente e quindi bagnarlo sotto l’acqua corrente. Una volta ammorbidito condire con il succo del pomodoro spremuto, abbondante olio extravergine di oliva, sale, qualche foglia di basilico e mentuccia e della cipolla fresca tagliata finemente.

Mi ricordo che la Nanna e Gigi erano i miei nonni.




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