ANNO 25 n° 116
''Poi un giorno esco di casa e mi passa la paura dei cani''
>>>>>>>>>>>>>> di Massimiliano Capo <<<<<<<<<<<<<<<
06/01/2014 - 04:00

di Massimiliano Capo

Poi un giorno esco di casa e mi passa la paura dei cani.

Non una paura normale ma una sorta di fobia cosmica che riguardava il regno animale in quasi tutte le sue articolazioni, compresi gli gnu e altre specie miti e distanti.

Una paura così cosmica che gli animali mi facevano una certa impressione anche a guardarli alla tele in quei documentari in bianco e nero e tutti sgranati che sembravano l’epifania della notte di Hegel.

Sì, insomma non si capiva una mazza di come erano gli animali davvero. Cioè tipo i colori. Erano tutti grigi, al massimo striati. Gli unici che non hanno cambiato le loro caratteristiche nel passaggio alla tele a colori sono state le zebre che le hanno create in bianco e nero e infatti sono passate di moda e ora non ne parla più nessuno nei documentari perché non rendono. Insomma, che gusto c’è a guardare a colori e in alta definizione e magari anche in 3D, un animale che sembra essere stato messo al mondo solo per fare felice tipo un comunista degli anni settanta che non voleva la Tv a colori per non far distrarre le masse dall’obiettivo di fare la rivoluzione e che immaginava un mondo grigio come quello dentro il tubo catodico?

Non te ne fai nulla e come i comunisti pure le zebre si stanno estinguendo. Perlomeno in televisione.

Comunque, io un giorno esco di casa e questo terrore cosmico di essere assalito, azzannato e nella migliore delle ipotesi amputato di un qualunque arto disponibile, mi passa.

Cioè mi passa per i cani. Per gli altri animali no. Per i gatti no. Per gli uccelli nemmeno un po’.

Continuo a non sopportarli. Soprattutto i pennuti. Che infatti mangio con avidità quasi fosse una personalissima vendetta per tutte le volte che mi hanno terrorizzato. A cominciare dai tacchini.

Che poi a pensarci bene io un tacchino vivo l’avrò visto nemmeno due volte nella vita ma è orrendo e non ci posso nemmeno pensare ora che scrivo che un giorno potrei incontrarlo di nuovo.

Insomma, esco di casa e mi passa la paura dei cani perché quel giorno il mio amore di tutti i tempi passati e futuri anche di quando l’amore non ci sarà più, estinto come le zebre da qualcosa di più colorato, mi dice che vorrebbe tanto avere un cane e io già ero terrorizzato ma siccome sono un uomo dalle mille risorse chiamo un mio amico che ha un allevamento e chiedo di poter andare da lui a vedere un cucciolo e però già mi sentivo male al telefono. Quasi che ogni possibile malattia canina l’avessi già addosso e che non mi sarebbe mai più passata nemmeno mi fossi salvato dal certo sbranamento.

Finisco la telefonata e dico tipo tutto bene andiamo subito e allora prendo la macchina e andiamo io e l’amore cosmico e senza dire niente a nessuno arriviamo in questa bella casa con intorno l’allevamento e tanti cani bellissimi e io che tremavo giuro come non mai.

Durante il viaggio avevamo deciso che il cane doveva essere piccolo (per potermi difendere meglio la notte in cui avrebbe tentato di azzannarmi) e possibilmente non troppo agitato.

Insomma, scendiamo dalla macchina e guardando tutti questi bei cani decidiamo che il nostro cane sarebbe stato un carlino.

Il carlino è quello strano canetto dal muso schiacciato e nero, dal pelo chiaro o completamente nero, un po’ storto come tutti i molossoidi e definitivamente goffo.

E quella mattina di tredici anni fa di carlini ne erano nati tre da pochissimi giorni ed erano piccoli batuffoli di pelo chiaro, con gli occhi semichiusi e con la voglia solo di succhiare latte da un biberon.

E io che avevo paura anche di queste cosine ma sono un uomo e dico vattene via alle mie paure ne prendo in mano uno e poi lo prendiamo in mano insieme io e il mio amore cosmico e li guardiamo tutti e tre non sapendo quale scegliere e alla fine il mio amico allevatore mi dice prendi questo e mi dice accarezzalo e io che lo avevo in mano ancora non lo avevo fatto e allora mi decido e lì capisco che non ne avrei più potuto fare a meno, che quello sarebbe stato il nostro bambino peloso, mio e dell’amore cosmico, e allora sono tornato a Viterbo che ancora tremavo dalla paura ma volevo vincerla perché quel bambino peloso mi voleva tanto quanto io volevo lui.

Le energie cosmiche ci avevano fatto incontrare e io alle energie cosmiche dico sempre di sì.

Torno per prendere le cose che servono per avere un cane in casa e poi di corsa a prendere lui e nel frattempo devo decidere il nome e in quel periodo c’era un giocatore dell’Inter che si chiamava Recoba e di nome faceva Alvaro con l’accento sulla prima A alla spagnola e aveva segnato alla Roma tipo la domenica prima e allora per non dimenticarlo mai e per esorcizzare il dispiacere del gol subito io al mio bambino peloso lo chiamo Alvaro.

E Alvaro da quel giorno è entrato nella mia vita e con lui tutti i cani del mondo.

Perché io con Alvaro ho imparato a fare tante cose, dal costruire una cuccia al pulire contento cacca e pipì, dall’alzarmi presto per uscire a fargli fare le cosine fino a dormire insieme sul divano perché senza di lui non si dormiva mai bene.

Alvaro mi ha accompagnato per dodici lunghi anni in cui ha annusato ogni mia cosa, ha letto ogni mio libro, ha guardato ogni film che ho visto, ha voluto bene alle persone a cui ho voluto bene, sempre pronto a starmi vicino con il tempismo che hanno solo gli ipersensibili, umani e non.

Mi ha visto felice e triste. Mi ha visto ridere e qualche volta piangere.

Insomma, mi ha amato come può amare solo chi sa donarsi davvero. Sì, donarsi, affidarsi. Questo è l’amore.

Poi Alvaro a un certo punto non è stato più molto bene ed è tornato lì da dove era venuto e da lassù sento che mi guarda e ogni volta che ci penso mi viene un po’ da piangere perché vorrei che fosse qui a fare quegli strani abbai quando qualcuno entrava in casa o quando fuori faceva tempo brutto; vorrei che fosse qui a cercare di mangiare ogni cosa più o meno commestibile si fosse trovato davanti; vorrei che fosse qui a cercare una gamba, un braccio, un fianco a cui poggiarsi, su quel divano perennemente coperto per tener testa alla pervasività dei suoi peli, per russare felice e sognare i suoi amici canetti con cui correva spensierato nei prati dell’inconscio.

Ecco, io vorrei che fosse qui, in questa mattina grigia, a farmi sorridere con una delle sue facce strane come in un film muto che rivedo nei calendari che mi hanno acompagnato per anni con tutte le sue foto stampate sopra.

Vorrei che fosse qui perché con lui non mi sono sentito mai solo.

Perché per lui dovevo esserci sempre. Come quando si ama davvero.

Ecco, allora, Buon anno anche a te, piccolo Alvaro. 




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