ANNO 25 n° 114
Musical come Melodramma dei nostri giorni!? Parliamone
Riflessioni di Elda Martinelli, con simpatia...c
14/08/2013 - 04:00

di Elda Martinelli

VITERBO - Qualcuno mi ha chiesto perché elogio sempre, poco o molto, gli spettacoli che vado a vedere. Semplice: perché quelli che non mi sono piaciuti (per qualità oggettiva e non per gusto personale) non li commento pubblicamente. Non sono un critico teatrale ma una teatrante: guardo con gli occhi del pubblico, pur esperto e a detta di alcuni anche autorevole. E li ringrazio… non fosse altro perché mi sono riconosciuti meriti di “anzianità su piazza” (sto sopra il palco o dietro le quinte da 48 anni…) ma non credo di poter davvero arrogarmi il diritto di censore. Premetto dunque che, se ne scrivo, il musical “Il Gobbo di Notre Dame” non era uno spettacolo senza qualità. Premetto anche che non sono una appassionata di musical: ma questo nulla toglie e nulla aggiunge alle impressioni avute durante e dopo lo spettacolo presentato domenica sera in piazza San Lorenzo, a Viterbo, nel cartellone del Tuscia Opera Festival.

Per cominciare, infatti, ho personalmente trovato ben giusto che un tale genere musicale (anche se non diffuso né radicato nel nostro Bel Paese…) fosse inserito nel programma. Ho recentemente visto una intervista di David Zard, celeberrimo impresario italiano nel mondo (che nel 2003 volle fortemente “Notre Dame de Paris” di Riccardo Cocciante, certo di diffondere l’Opera Musicale anche in Italia: che sostenne, poi, il progetto di Lucio Dalla per la sua “Tosca Amore Disperato” e che, soprattutto, ha portato in Italia il circo canadese più famoso al mondo, “il Cirque du Soleil”…) in procinto di debuttare all’Arena di Verona, per l’inizio di ottobre, con “Romeo e Giulietta – Ama e cambia il mondo”, con la regia del coreografo Giuliano Peparini. Ebbene, in questa lunga intervista, Zard sosteneva la somiglianza indiscutibile del Musical con il Melodramma italiano, ritenendo certo che, vivi oggi, Puccini e Verdi avrebbero scritto Musicals. Non so però se i loro librettisti più noti, da Giacosa a Boito, li avrebbero seguiti con altrettanto ardore. Perché quello che mi lascia sempre un po’ perplessa, nei Musicals, è l’esiguo spazio lasciato ai recitativi. Non c’è bisogno di essere melomani per sapere (o intuire) che si intende per “recitativo” quel “parlar cantando” durante il quale, nel melodramma, si vanno narrando i fatti nudi e crudi (come già avveniva nella tradizione della musica barocca) mentre nelle “arie” si manifestano i più profondi ed intimi sentimenti dei protagonisti. Qualcosa di non molto diverso è il concetto moderno e commerciale di strofa/ritornello (racconto/emozione) insito nella musica pop, rock, soul, blues. E via dicendo.

La distinzione di questi due momenti musicali, sapientemente calibrati, è inconfutabile fonte di piacevolezza e soprattutto di pathos, per lo spettatore medio, nel quale io mi identifico pienamente. Ne so molto meno di quanto possiate pensare: sono “le ore di volo” in platea che mi hanno conferito conoscenza e curiosità di sapere. Nonché spirito di analisi: requisiti che cerco di infondere come prima cosa ai miei bambini “Teatro di Carta” (perché di vanesie stelle e stelline con scarsa qualità sul palco ce ne sono anche troppe: ma un pubblico capace di non farsi travolgere dalla moda né infinocchiare dagli impresari, capace cioè di una propria analisi, scarseggia!). Ma questo è un altro discorso.

Torniamo al pathos, unico assente in una così ricca e curata messa in scena, come quella presentata dalla Compagnia “La Rupe” di Grotte di Castro, da 10 anni in attività –unica nel suo genere nel nostro territorio- con i suoi allestimenti ( “Phersu d’argento” come miglior spettacolo nel 2004 proprio con questo, presentato dal Tuscia Opera Festival). Molto belli i costumi non d’epoca, ma ben pensati e realizzati (consiglio comunque sempre a tutti di evitare stoffe lucenti tipo “raso”: “sparano luce” immensamente, soprattutto con un parco luci da far invidia a professionisti!), molto accattivanti le coreografie (con una certa discontinuità, forse: ma nell’insieme originali e coinvolgenti, create da Michele Mencio), belle ed efficaci le scene curate da Carlo Costa: non altrettanto brillante e presente nella regia… (gli attori, con una gestualità un po’ statica da vecchia scuola lirica, spesso non prendevano le molte luci in scena; dopo tante repliche erano ancora “sporchi” nelle uscite, fatte per lo più correndo via, nella dissolvenza delle luci che non erano loro complici… così pure per qualche cambio a vista gestito da “mani” e da tecnici che apparivano/sparivano dalle quinte con fare maldestro). Discutibili i tagli e le correzioni al debole testo esistente, come in ogni musical (che poteva pur essere ampliato, piuttosto!) …ritocchi e contrazioni che, alla fine, presentavano lo spettacolo come una sequenza di canzoni. Voci bellissime, è vero, quelle dei sette solisti: diverse una dall’altra, tutte piene ed espressive ma non certo valorizzate dalla fonica (i livelli audio lasciavano molto a desiderare, in mezzo a tanto bendiddio di impianto tecnico!)

Mancava soprattutto il pathos, mancava quello che vien detto “climax”: e non uso certo questo termine per fare la colta! Il climax è quella figura retorica (di sicuro non esclusivamente nota agli intellettuali e neanche troppo sconosciuta: mia figlia l’ha studiata in Italiano in primo Liceo…) che deriva dal termine greco klimacs: ove la traduzione della parola è “scala”. Ecco perché per climax (in letteratura come in musica) si intende quella descrizione, graduale e ascendente, che cresce pian piano dando tempo al lettore/spettatore di entrare appieno nel racconto: con tempo, profondità, analisi, partecipazione. Con pathos. Che è tensione emotiva. E questo crescendo (…non esclusivo appannaggio di rossiniana memoria!) è ben sostenuto proprio dai recitativi e dai passaggi raccontati, nel melodramma come nel musical, secondo me. Per evitare che il prodotto musicale si appiattisca nel ripetersi di brani solistisci (anche di ottimo livello!) non “introdotti” da alcunché: in un prodotto livellato che è privo di acme, dalla parola greca akmè ove la traduzione della parola è apice. In soldoni: le Alpi sono le Alpi, perché oltre alle cime ci sono le valli. E ci sono sentieri che progressivamente conducono verso la cima, che invitano a pregustare l’inatteso e indimenticabile panorama finale (forse non a caso la parola “climax” è considerata omologa alla parola “orgasmo”) … Diversamente si ha qualcosa che non è più una rappresentazione ( cioè qualcosa di rituale, come nelle origini era il teatro: profondo legame tra attore e pubblico, entrambi operanti lo stesso intimo percorso …la parola “dramma” viene sempre dal greco draomai, che significa “vivo con sofferenza partecipata” ) e non è più nemmeno un semplice spettacolo ( cioè un allestimento più o meno ben confezionato di arti varie, dal balletto alla maratona, a certi comizi…). Senza climax, in un musical, si ha soltanto una compilation. Una buona compilation: come per lo spettacolo della “Compagnia Teatrale La Rupe”. Si vedeva il grande impegno di tutti… e la riuscita individuale di ciascuno dei 60 artisti in scena e dietro le scene: ma non si percepiva la passione di un percorso etico da condividere con il pubblico. Non si capiva, dunque, l’utilità di tanto sforzo scenico di contorno. E il musical è cosa ben diversa dalla commedia musicale all’italiana: con testi descrittivi anche intimistici, accanto a canzoni (Garinei & Giovannini con Armando Trovaioli, per intenderci!). Ecco perché forse il musical anglosassone è un genere che non ha mai fatto presa fino in fondo, qui in Italia: la nostra tradizione, storica e culturale, affonda in radici che si perdono nel tempo. Gli autori teatrali latini e i greci scrivevano con profondità i loro testi, carichi di riflessioni e di morale anche nei passaggi più ridanciani dei comici o solo apparentemente di collegamento tra i fatti. E nonostante nel quotidiano non facciamo tesoro delle nostre memorie, storiche e culturali (lo si vede tutti i giorni in tutti i campi, soprattutto nei reiterati errori politici: intendendo la parola nella sua più ampia accezione…) noi italiani amiamo ragionare, partecipare, condividere. Capire. Giudicare, anche. Se ce ne viene dato spazio, tempo e possibilità, una volta seduti in platea. Per applaudire qualcosa che così e solo così ci rimarrà dentro per sempre. Perché ha toccato le corde dell’anima, con il pathos.

Altrimenti il deforme Quasimodo sarà inutilmente morto abbracciando la bella Esmeralda.

 




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