ANNO 25 n° 114
“La vita è l’arte dell’incontro”
Riflessioni di Elda Martinelli, con simpatia...
17/09/2013 - 04:00

di Elda Martinelli

VITERBO - Ci sono cose, nella vita, che in un certo momento chiudi in un cassetto, magari semplicemente per aprirne un altro. Ce ne sono alcune che restano lì, ferme e chiuse: e stanno bene dove stanno, senza che tu ne senta la mancanza, il peso o la nostalgia. Ci sono cose lasciate indietro che prima o poi ti raggiungono (come già detto e ampliamente descritto in questo spazio, un anno fa…) e che per questo ti offriranno un giorno un salato conto da pagare, come tutto ciò che lasciamo di irrisolto, nelle nostre vite. Ci sono cose, poi, che, quando la vita, dopo tanto tempo, riapre inaspettatamente quel loro cassetto, ti accorgi come abbiano magicamente e meravigliosamente mantenuto la loro fragranza, la loro magia, il loro senso più profondo. Cose così, per me, sono quelle legate a incontri speciali: incontri che segnano la vita, se è vero che come dice il poeta (“…poeta, poetinha vagabundo”, Vinicius de Moraes ) la vita è l’arte dell’incontro.

Ci sono incontri che si fanno lontano da casa, incontri che si fanno senza lasciarla mai, la tua casa. Incontri che si fanno per strada, dove non ci si ferma mai abbastanza a incontrare chi passa… Incontri che si fanno in luoghi specifici e speciali, come la scuola, il teatro, un libro, una canzone. Incontri fatti altrove, come dentro di te. Dipende sempre da come noi siamo disposti nei confronti della vita. Perché, comunque la si veda, il viaggio più lontano e stimolante, più profondo e difficile è il viaggio da fare dentro noi stessi.

In questo, credo che essere uomo/donna, di testa o di pancia, del nord o del sud del mondo, accomuni e differenzi assai! Perché si può essere tutto ciò (e tanto altro) oltre l’anagrafe e la latitudine di nascita/di vita.

Il viaggio più importante della mia vita (dal quale non sono mai tornata*) è sicuramente quello che mi ha portato a Napoli: dove a mia volta, per incontri che hanno profondamente segnato il mio modo di vivere, mi sono ritrovata in Brasile, senza aver mai attraversato l’oceano. Quando domenica pomeriggio i miei mi hanno “imbarcato” per Roma, in un brumoso pomeriggio carico di saudade, “per farmi una sorpresa”… ho intuito e temuto di riaprire un cassetto fondamentale della mia vita. Molto intimo, poco condiviso, in realtà: anche se (le cose nella vita non accadono mai a caso…) ho finito solo poche settimane fa l’adattamento del prossimo spettacolo per la Compagnia dei Piccoli (in debutto a dicembre, del quale ho già assegnato le parti ai miei bambini, la scorsa settimana!) riscrivendo il racconto “Gatto Tigrato e Miss Rondinella” di Jorge Amado (meraviglioso autore brasiliano, militante comunista e per questo a lungo esule…) con musiche samba/ bossanova, che da quel mio cassetto chiuso ma non per sempre, facevano capolino già da un po’. E a dirla tutta, mentre andavo a Roma, tra i risolini complici delle miei figlie e del mio compagno, non sapevo se aver più timore di aprirlo o di lasciarlo chiuso, quel cassetto: avendo intuito con il cuore e con la pancia (con tutto il sud del mondo che ho dentro e che mi lega a Napoli come al Brasile…) che mi stavano portando al concerto di Toquinho.

BRAZIL! …così semplicemente si chiama l’evento proposto dall’Ambasciata del Brasile a Roma (presenti autorità e rappresentanti vari, al centro della platea, poche file avanti a noi) da domenica 15 a domenica 22 settembre, in collaborazione con la Fondazione Musica per Roma, presso il Parco della Musica di Roma: dove sono stata catapultata da “…la voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria” dei miei cari (tanto per citare un celebre LP italiano di Toquinho, Vinicius e la Vanoni). L’evento, come oggi si chiamano questi appuntamenti, è stato voluto per rafforzare gli scambi culturali tra i due paesi legati, in passato, da un forte flusso di migranti italiani (tra i quali la famiglia molisana di Antonio Pecci, nome di battesimo di “Toquinho”): flusso che da alcuni anni vede, invece, l’arrivo in Italia di tanti brasiliani. Una “ sette giorni sette” di musica, danza, mostre, cinema tutto brasiliano: con odore di cannella e chiodi di garofano nei dolci e nelle sale dove si possono assaggiare cibi etnici e vedere i ballerini di Capoeira transitare con passo sincopato, per raggiungere l’atrio dell’Auditorium Santa Cecilia. Dove sabato prossimo, alle 18, consiglio (tra i tanti) un appuntamento imperdibile con Rosa Emilia Dias, che canterà “L’arca di noè”, ovvero le più belle e famose canzoni per bambini scritte da Vinicius de Moraes e Chico Buarque, all’inizio degli anni ’70 e che non tutti sanno essere nati dalla collaborazione con un grande poeta e cantante italiano, Sergio Endrigo (“Il pappagallo” “La pulce” “La papera”, quest’ultima con musica dello stesso Toquinho). Ma, soprattutto, sarà proposto al pubblico l’adattamento musicale della fiaba scritta dai fratelli Grimm “I musicanti di Brema”, musicata da Enriquez Bacalov e il nostro Sergio Bardotti, adattata proprio da Buarque de Hollanda: un’allegoria politica di qui pesanti anni di rivoluzione/repressione, sfociati nella dittatura in Brasile e che videro arrivare in Italia Toquinho e Chico Buarque. Perché fu proprio così che quei due giovani talentuosi musicisti, furono chiamati dalla RCA per la registrazione che vedeva insieme il nostro poeta Ungaretti e il loro poeta Vinicius, proprio grazie all’amicizia comune di Sergio Endrigo (tanto poco ricordato, oggi: pressoché sconosciuto ai più giovani!).

Che dire del concerto di domenica sera!? Un tuffo nel passato, per accorgersi ancora una volta che l’oggi è già futuro. Quello che cercavo di dire a parole alle figlie, mentre la bellissima sala si riempiva di un migliaio di appassionati. Tutti entusiasti a fine concerto, nonostante Toquinho sia stato spesso criticato dai puristi (quelli con un piede già nel Jazz…) di essere un po’ commerciale e troppo alla portata di tutti: cosa che io ho sempre ritenuto una dote, invece, perché essere capaci di toccare tanti cuori tanto diversi è cosa da pochi. E lo fa subito, con la sua voce: con le sue mani che corrono sulle corde della chitarra forse anche più veloci ed espressive di quando lo “rincorsi” nel concerto a Praia a Mare, 30 estati fa/ 20 chili in meno (per lui, con baffi e neri capelli lunghi: oggi bianchi, a 67 anni).

E lo fa subito, anche grazie a eccezionali compagni di viaggio come Pepa D’Elia alla batteria, Ivan Savino al basso e due donne indimenticabili: Anna Setton, che con una voce ineguagliabile lo accompagna da un paio d’anni nei concerti e Silvia Goes, piano/tastiera strabiliante, che muove le gambe in un irrefrenabile ballo senza sosta per tutto il concerto, su tacco 12, mentre suona!! Lo fa salutando Roma “…una città dove tutti sembrano sempre in vacanza!”: lo fa con una scaletta ruffiana, che prevede di partire con una inedita “Roma non fa la stupida…” (versione bossanova) passando per una struggente Samba em preludio (nel più tipico contrappunto di voce maschile/femminile della melodia brasiliana) fino a un arrangiamento mozzafiato (con tempi mangiati!) del più celebre “Acquarello”, dedicato all’amico di sempre, presente in sala, Gianni Minà. Lo fa non dimenticando mai di citare amici, fatti, maestri e parole di questa sua lunghissima carriera: in questo suo tour, con il quale festeggiamo i 100 anni che avrebbe a ottobre il suo/ il nostro poeta Vinicius!

Il tempo si annulla. Lo spazio si annulla. Quel cassetto non sembra essere mai stato chiuso davvero. Quel che ho imparato e insegnato nella vita è legato da un sottile filo che sa di samba e di cuore. Quel che ho imparato è che chi dà e chi riceve con tanto amore vive mille vite e ha mille vite da condividere. E’ da Napoli e da Toquinho che ho imparato e fatto mio il verso “…la tristezza ha sempre dentro una speranza”. Come molti altri che si offrono in un unico cuore, dal sud del mondo. Da Napoli come da Bahia. Perché una volta arrivata a Napoli mi sono ritrovata in una sala prove dove i miei più cari amici suonavano e si preparavano per i loro concerti, in città. Il gruppo si chiamava “o’ berimbau” (un buffo strumento che accompagna la danza Capoeira, arrivati entrambi con gli schiavi africani e fortemente simbolo della voglia di libertà: uno strumento a percussione con una sola corda tesa da un’asta su un risuonatore in basso, corda fatta vibrare un plettro metallico o con una moneta, all’epoca “una cento lire”… ) che è anche una canzone con un testo bellissimo: dice, tra l’altro “…chi non esce da se stesso morirà senza amare nessuno”. Una canzone di Baden Powell ( chitarrista, autore e maestro della bossanova) che Toquihno ha cantato domenica sera, per omaggiarlo: una canzone che avevo, come molte altre della mia scaletta, inserito nello spettacolo della Compagnia dei Piccoli (perché le cose nella vita non accadono mai a caso…). Una canzone che era anche la sigla di apertura di quei concerti nelle sale underground della Napoli anni’80.

Di quello spensierato gruppo di giovani musicisti, so che oggi il cantante/tastiere, madrelingua portoghese, è infine riuscito a passare l’oceano e a fermarsi là, dove correvano i nostri sogni; il percussionista ha poi suonato e cantato con Eduardo de Crescenzo e a lungo girato il mondo con Renzo Arbore (l’ho rivisto in tv, qualche volta…); il chitarrista ha per un periodo insegnato proprio alla Scuola Musicale di Viterbo ed è stato per me un gran piacere ospitarlo più volte; del batterista, che mi insegnava a tenere i sette/ottavi e a parlare napoletano, non ho più notizie; il bassista è oggi un impegnato magistrato (sotto scorta da vent’anni) … l’idealista e filosofo del gruppo: voleva cambiare il mondo e forse, a modo suo, c’è riuscito anche più di altri.

A loro il mio grazie, per sempre, per tutto ciò che è venuto poi. Ai miei cari, che hanno conosciuto un altro pezzo di me grazie alla indimenticabile serata con Toquinho, un grazie per quello che verrà, come lui stesso ha scritto e cantato (come Toquinho ha scritto e cantato al suo “amico/e padre/ e figlio/e maestro Vinicius”): “…alla vita non piace aspettare: la vita vale la pena di viverla, la vita deve essere portata avanti! Vecchio Vinicius, grazie, saravah!” O meglio, come si scrive in brasiliano “saravà”: un saluto, un grido… quasi una preghiera, soprattutto un augurio. Saravà vuol dire gioia e amore, pace e fratellanza: un sì alla vita… un dare e ricevere. Dunque… saravà, Toquinho!

 




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