ANNO 25 n° 116
Forever selfie
>>>>>>>>>>>>> di Massimiliano Capo <<<<<<<<<<<<<
30/12/2013 - 04:00

di Massimiliano Capo

Oggi iniziamo con una domanda. Una domandona fondamentale.

Una di quelle che da sole aprono uno squarcio di verità sul mondo che ci circonda.

Una di quelle domande che vale da sola molto più delle mille risposte che può scatenare. Perché le domande, quelle vere, sono quelle che aprono lo spazio ad altre domande più che sollecitare e dare risposte perentorie e certe.

È così noiosa la verità, quella con la vu maiuscola.

Così noiosa che non vale la pena cercarla e appena se ne ha sentore è meglio tornare lì da dove si è venuti.

Nel mare delle incertezze, degli sbagli possibili ma anche degli stupori e delle sorprese. E delle delusioni e degli scazzi con la vita ma anche delle gioie incredibili e dei sorrisi profondi.

Sempre meglio questa confusione creativa della melma calma piatta di chi se la fa sotto e allora si guarda per tutta la vita lo stesso film, caldo e rassicurante come darsi grandi occhiate arrapate, da soli davanti allo specchio, la mattina dopo le feste di Natale facendo finta sia lo specchio dimagrante del camerino a tende rosse di Justees e noi davvero quelli riflessi.

Insomma, la domanda fondamentale è, e non sottovalutatela: cosa c’entrano gli intellettuali, con una pisciata, il gioco, e la voglia di sorridere?

A me la domanda è nata da una risposta.

Cioè, mi spiego: ho letto una cosa su facebook appena sveglio e mi è sembrata una di quelle illuminazioni che manco Buddha.

Non sembri una questione oziosa. Lo ripeto. È una cosa che ci riguarda tutti.

Insomma, apro facebook e mi compare davanti agli occhi una cosa scritta col solito sintetico acume da Franco Bolelli.

Riprendo la prima riga del suo stato perché la mia domanda nasce dalla sua considerazione.

Scrive Bolelli: della serie, gli intellettuali italiani non riconoscerebbero un gioco nemmeno se gli pisciasse sui piedi e poi continua per diverse righe ma a me bastano queste e la questione che le ha sollecitate per dire della domanda che mi hanno fatto venire in mente.

E siccome temo che gli intellettuali italiani non riconoscano anche molto altro, io che intellettuale non sono e che quindi sono esentato dall’obbligo di comprendere e riconoscere ora mi accingo a scrivere l’elogio del selfie, che poi era la questione che ha sollecitato lo stato di Bolelli e la mia domanda fondamentale.

Per i pochi che non dovessero saperlo, il selfie è quel giochino di farsi da soli foto col cellulare e poi condividerle via social network. E di farlo, spesso ma non solo ovviamente, con la boccuccia a culo di gallina, pratica che io trovo così adorabile che ho deciso di farmi foto solo così. E grazie a Giulia di avermi ispirato.

Insomma, e torno a Bolelli, un famoso psicoanalista che di cognome fa Recalcati ed è il lacaniano italiano con la elle maiuscola, un intellettuale noto e riconosciuto, ha detto con tutta la sua autorevolezza, che il selfie, cioè tutte quelle bocche a culo di gallina, sono, come sempre quando si ha a che fare con gli psicoanalisti, il segno di qualcosa d’altro (e che dobbiamo portare a ragione). Nel caso specifico: ‘’se la propria vita ha bisogno dell'autoscatto per certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla propria esistenza'.

Bolelli richiama Recalcati al piacere del divertimento e a un po’ di altre cose che potete leggere sul suo profilo.

Io che non sono Bolelli, più semplicemente vorrei dire a Recalcati, di sciallarsi un attimo.

Ma proprio un attimo. E di farseli due selfie che magari la bocca a culo gli viene pure bene e due risate ce le facciamo insieme a lui pure noi.

Perché io questa ossessione a spiegare tutto con qualcosa che ci manca; questa ossessione a dover trovare sempre altrove la risposta più complicata e meno immediata per dire di una cosa; questa voglia diffusa di dover teorizzare su tutto quello che ha a che fare col semplicissimo piacere di prendersi un po’ per il culo; insomma io questa necessità di dover dare un senso a tutto non la capisco.

E aggiungo che nemmeno ho voglia di capirla, per quel carico di negativo che si porta con sé quella strana voglia di doversi distinguerevagheggiando di un paese e di un mondo che non ci sono più, dove i valori erano valori, gli amici amici, l’amore amore, e tutto era reale, ci si toccava davvero, ci si vedeva davvero, e altro che social network e wotsap e facebook e twitter e altro che iphone e foto e videini autoreferenziali.

E allora abbasso gli anni ottanta che hanno segnato il punto di svolta, in negativo ovviamente, e un ritorno all’io da cui fuggire e rifuggire; abbasso tutto quello che sa di nuovo perché chissà che succede poi; abbasso ogni piacere e divertimento perché anche l’edonismo è un cazzo che non va bene.

E via con la retorica dell’impegno, della sofferenza un tanto al chilo, della purezza degli intenti e via menandoselo in solitaria ma stando attenti a non arrivare mai all’orgasmo.

E via col freno a mano nei confronti della vita con tutto il carico di energia che si porta dietro.

Ecco, allora, contro tutte queste cosine brutte brutte, contro questa cappa di tristezza, forse è il tempo di un gesto rivoluzionario davvero: mettere la bocca a culo e inondare il mondo di sorrisi e gioia.

Viva il selfie.

p.s.: ulteriore antidoto a questa fastidiosa aria pesante che ci gira intorno è una meravigliosa mostra di facce anni ottanta, felici e non, ma vive, creative e originali, in corso a Roma alla galleria S. T. in via degli Ombrellari. Andateci, chiude il sei gennaio e vale il viaggio. Anche per chi ha vent’anni. Niente a che fare con la nostalgia.




Facebook Twitter Rss